mercoledì 27 febbraio 2013

PAROLE NUOVE ovvero SULL'ESSERE O MENO CASALINGHE

Le parole creano un'identità.
Mettono un'etichetta.
Incasellano.
Imprigionano.

Le parole creano un'identità.
Rimettono in discussione idee.
Aprono varchi.
Rendono liberi.

E' da molto tempo che rifletto sulle mie parole.

Dopo una laurea e un master (oh, io davvero nè... non a Chicago però... ), è stato abbastanza fastidioso per me scrivere nelle iscrizioni alle scuole, alla voce 'lavoro': impiegata.
Lo ammetto.
E' stato difficile.

L'impiegata per me, ma anche nell'immaginario che la parola si porta dietro, vuol dire: conti, carte, computer, biro, excell, 9-18.30.
E così ho fatto per un po'.
Poi quell'etichetta mi è diventata simpatica e la sfoggiavo. Anche se il mio lavoro, paradossalmente, nel frattempo era cambiato: era tutto basato sulla comunicazione, il marketing per usare una parola che dà più lustro. Una parola per altro che rientrava meglio nel mio iter universitario.

Ora ho lasciato pure quello.

Interno casalingo.

Ho rifatto le iscrizioni alle scuole.
Lavoro della mamma: ......
Già. Cosa metto? Casalinga.
NO.
Casalinga mai.
Di fatto lavoro un po' nelle scuole a contratto. Non è un lavoro che mi impegna tutti i giorni.
Lavoro della mamma: lib. prof.
E corrisponde.

Ma perché casalinga no?
La cosa mi ha turbato, quel mio frenarmi mi ha anche fatto arrabbiare con me stessa.
Ma sento che un nodo lì c'è.

Ho riflettuto e ho capito che quello che non mi piace è quel riferirsi alla CASA.
La casalinga fondamentalmente, come suggerisce l'origine della parola stessa, è una donna che sta in casa.
Nulla da togliere a questo tipo di donna.
Mia suocera è una nonna casalinga. La sua casa è lei. Ai miei figli piace capitare a casa sua a sorpresa e lei è lì, si direbbe ad attenderli, proprio con quella evocazione all'attesa. Ed è molto bella. E molto rassicurante. Anche a me piace andare a trovarla così, a casaccio.
E anche mia nonna era così. Le sue abitudini erano standardizzate al massimo: la mattina andava in sù (gergo dialettale per dire in centro) e il pomeriggio a casa.

Io no.
La casa non è il mio centro.
Il mio centro sono i miei figli.
Non che il centro delle casalinghe non siano i bambini: è solo che la loro esplicazione passa per le loro mura.

Io penso che non esistano più casalinghe, da anni.
Forse è quella dai nostri genitori quella che si può considerare l'ultima generazione di casalinghe.
E allora perché non è cambiata quella parola?

Quello che meno mi contraddistingue è la sedentarietà, l'appartenenza ad una via, ad un numero civico. Il luogo in cui sono più spesso è la macchina o la sala d'attesa:
autolinga?
attendendinga?
madrelinga?

Io ho l'urgenza di definirmi diversamente.
Ne ho l'urgenza, ma so anche che è un mio limite.
Io non produco reddito. Ma non ho l'aura della santità che contraddistingue la casalinghitudine.
E mi sento a metà. Davvero. E a volte ne soffro davvero e percepisco chi mi guarda con disprezzo culturale - "Eh, fa la mamma.." -, da chi mi invidia - "I miei figli li vedo poco..." -, e da chi mi compatisce - "Ma come fai?".

Tra di noi possiamo dirlo: è socialmente più apprezzabile una donna casa-lavoro. E' obiettivamente uno status più condiviso e dunque più normale.
Io mi sento anormale.
E dunque mi nascono dei sensi di colpa e dunque il tempo in cui non cresco dei bambini, mi occupo anche di quelli degli altri facendo la rappresentante, facendomi parte attiva nella cosiddetta vita civile. E lo faccio felicemente. Pensando che io ho il tempo che chi lavora non ha e lo metto a disposizione.

Ho scavato questa definizione dentro di me, con fatica.
E tutto questo dall'umana società viene tradotto solo in un modo:
casalinga.

Eh no cazzo. Capite che no!
Le parole non cambiano perché parole nuove cambiano.


venerdì 22 febbraio 2013

LA RESTITUZIONE

Oggi per il VdL di Homemademamma, vi parlo del mio libro di svolta. Un libro che ho letto quest'estate e che mi ha svelato cose importanti e per me ora fondamentali.

LA RESTITUZIONE
di F. Stoppa



Stoppa è uno psicoterapeuta ed è a capo di un progetto che si occupa di dialogo intergenerazionale.
Il libro parla ai genitori di adolescenti (dopo i 15 anni) che sono stati i contestatori del passato (Stoppa è del '55), ma è così ricco di riflessioni, che io personalmente lo renderei obbligatorio per tutti i genitori.

Il libro è molto complesso, a tratti anche difficile. Il nodo centrale (semplifico molto) è questo:
i genitori degli adolescenti hanno contestato la società, avrebbero voluto rifondarla, ma hanno fallito. Nel momento in cui hanno avuto dei figli li hanno voluti difendere da una società iperindividualista e brutale e li hanno messi sotto una campana di vetro. I genitori, cioè, NON HANNO RESTITUITO ai propri figli l'incarico che essi stessi avevano ricevuto dai propri genitori, ossia l'impegno di farsi carico della società con tutte le brutture insite in essa.
Hanno cercato di difendere i propri figli fin dall'infanzia e poi arrivati all'adolescenza o superata, hanno detto loro: ora il mondo è tuo. La conseguenza è quella dell'adolescente arrabbiato con i genitori (mi hai tenuto al riparo e adesso mi sbatti nel mondo), con molte paure (la paura di affrontare le grandi avversità: sconfitte, morte...) e senza strumenti difensivi (non avendoli affinati durante l'infanzia).

Già questo tema basterebbe per aprire un dibattito. Interno. Per me, mamma di bambini piccoli e sul grande tema della separazione e della fiducia. Noi lasciamo questo mondo marcio in mano ai nostri figli solo se in loro abbiamo fiducia, se no li proteggiamo. 

I temi che hanno smosso dentro di me dei macigni sono innumerevoli.


Quello del trauma:
come intitola Stoppa il capitolo, traumaticamente abita l'uomo: il trauma fonda l'essenza umana, la segna. La vita non è una curva di risalita, è un saliscendi. Il trauma serve per deviare i percorsi. Racconta Stoppa di pazienti depressi che vogliono tornare come prima. Ecco l'errore. Se sei depresso, vuol dire che prima non andava bene, se hai attacchi di panico vuol dire che il tuo corpo ti parla e si oppone a qualcosa, il trauma serve per cambiare. S sale, dice Stoppa, a patto di saper scendere. Se si vuole superarlo, il trauma, bisogna accettarlo:

(...) anche se prima o poi la vita graffia e deforma la visione che avevamo del mondo, in realtà ci traumatizziamo (cioè ci svegliamo alla vita) solo quando decidiamo di fare nostra la ferita, di lasciarla sanguinare e di considerare cosa ci rivela per poi, evidentemente poterla medicare. Solo a queste condizioni gli incontri decisivi della vita diventano esperienze in senso pieno, momenti cioè capaci di sandire il tempo della nostra storia e dare forma alla nostra identità. "Il trauma" dice Lacan "inaugura la storia che il soggetto pensa e ripensa".


Quello dell'infanzia:
ossia, l'infanzia è un'invenzione. L'infanzia nasce in noi durante l'adolescenza. E' in quel momento che la ripensiamo, la ponderiamo e grazie ad essa ci formiamo. Per questo i primi anni di vita e di riflesso il comportamento dei genitori è fondamentale:

(...) il bisogno di proteggerli, difenderli e renderli felici ha finito per "recluderli" in una campana di vetro escludendoli di fatto dal campo delle responsabilità familiari e sociali.

Fino a giungere alla dimensione "ortopedica" della mancanza. La mancanza, la solitudine però deve essere riconoscibile per il bambino, il bambino

deve sapersi mancare, scoprirsi tale e sorprendersi di questa sua condizione. La consapevolezza è un atto psichico che interrompe il suo stato di quiete e lo porta a interrogarsi sul senso della sua presenza nel mondo.

E a questo punto fa l'esempio dell'allattamento:

Stiamo sottolineando quanto sia fondamentale, per il corretto ridimensionamento della madre, che, al di là delle prestazioni e delle cosa elargite, lui la riconosca nella sua umanità. Come qualcuno, in particolare, che non si limita ad esaudire la richiesta del suo bambino - "Dammi il seno" -, ma come un soggetto che porta a sua volta una domanda: "Lasciati nutrire da me, sii il mio bambino": una domanda che esprime già un desiderio che è al di là del semplice fatto di nutrire.


Forse non si riflette abbastanza sul fatto che l'eccesso di facilitazioni può avere un effetto inibente nel promuovere l'assunzione di responsabilità.

Già, assunzione di responsabilità. Una cosa che manca assolutamente però, anche a noi genitori a ben pensarci.
La facilitazione inibisce anche il desiderio perché i genitori tendono a volte anche a prevenirlo. Ma è il desiderio che muove gli animi eletti:

(...) si può agire solo se ci si separa dal proprio destino, da ciò che è già scritto, se si desidera.

Quanto più l'adulto che se ne prende cura, strada facendo, svelerà la propria stessa condizione di incompletezza, tanto più il bambino troverà varchi e occasioni per mettere in gioco la sua creatività e il suo desiderio. E, soprattutto, godrà di una libertà di movimento che potrà consentirgli la restituzione di quanto ricevuto.


Quello della società consumistica:
nelle società con un alto numero e accesso ai beni di consumo, è maggiore l'utilizzo di psicofarmaci. 
La società moderna privilegia 

la dimensione del piacere sul resto dell'esperienza, quello che viene evitato, disattivato, è proprio il giudizio relativo a ciò che è moralmente ben o male.

E così paradossalmente

l'obiettivo della macchina produttiva nell'era dell'homo consumens è, al contrario, la perpetuazione dello stato di insoddisfazione del singolo.

(Mi viene in mente l'esempio dell'iPhone 1, 2, 3, 4, e 5. Oppure, e vale per i miei figli, le serie dei lego sempre nuove, "il mio compagno ce l'ha già!!")


Quello della distanza:
il bambino non fa più parte della coppia, ma ne fa parte.
Questo è una forzatura pericolosa, secondo Stoppa.

(...) il bisogno stesso di ringraziarlo per il fatto di esserci, e con ciò di aver dato un senso alla vita dei genitori, ha come suo correlato il pensiero inconscio, e alquanto delirante, che il nuovo individuo si sia autogenerato.

Per questo per esempio ora le regole familiari o le restrizioni si 'contrattano' con i figli, come in una società per azioni

sostituendo all'idea di filiazione quella di affiliazione al club interplanetario dei consumatori. (...) "Disfarsi" del proprio passato è possibile solo quando ci si è prima assunti il senso di una storia che altri hanno iniziato prima e per noi. Mentre oggi si viene sollecitati ad attivarsi con l'obiettivo di costruire il proprio radioso futuro senza menziona alcuna del passato.

L'esito di questa adesione ai desideri (reali, presunti?) del figlio è che con l'alibi di essergli alleato e di non nuocerlo in nessun modo, lo si condanna alla solitudine. La più terribile, quella di non avere nemmeno un nemico, cioè qualcuno di reale, "vero" e traumatico, su cui far defluire l'odio, l'aggressività, il senso di rivalità; affetti e sentimenti certamente in sé non patologici e che, anzi, sono gli effetti e talora i prodromi, della nostra condizione di esseri viventi abitati dall'amore e dal desiderio.



Chiudo questa mia lunga recensione e mi scuso. Ho recensito così solo metà del libro, che prosegue arguto in altre analisi. Se vi va continuerò...
Chiudo con la frase della sua premessa e che mi sta molto a cuore:

(...) il senso più vero dell'esistenza umana - il mistero di ciò che ci fa uomini - non sta nell'autoreferenzialità della propria esperienza, ma risiede in quei singoli, spesso quotidiani e ordinari atti con i quali si consegna il mondo a qualcun'altro.

giovedì 14 febbraio 2013

C'ERANO UNA VOLTA DUE RAGAZZI...

C'erano una volta due  ragazzi di vent'anni. Lei aveva lunghi capelli neri, lui uno sguardo arrabbiato e insofferente. Nonostante la giovane età avevano già una bambina di tre anni, piccola piccola col ciuccio sempre in bocca.
Un giorno dagli appartamenti vicini, da caseggiati diversi, si sentono urla e rumore forte di passi, porte che sbattono. Quanto è brutto il suono della rabbia, penso. Mi fa paura anche. E così, di fronte al continue domande di mio figlio rispetto al frastuono, rispondiamo che stanno giocando.
Dopo mezz'ora di apprensione, di televisione accesa per non allarmare nostro figlio, interveniamo.
La ragazza apre. I capelli leggermente scompigliati, come se avesse appena finito di correre e rotolarsi sull'erba. Ha il viso teso.
"Tutto a posto?"
"Certo!"
"Si sentivano urla..."
"Stavamo giocando..."
"Ah. Va bene..."
Stavano giocando.

Passano alcuni mesi.
Di nuovo gli stessi rumori. Le urla. Le corse interrotte dal divano, dalle sedie e dai giochi di casa.
Le porte sbattono. Un suono diverso squarcia la tiepida notte.
E' caduto dal loro balcone un vaso di fiori.
Chiamiamo i Carabinieri. La gente dalle altre finestre alza lentamente le tapparelle. Non accende la luce per non farsi vedere. Qualcuno più coraggioso si affaccia.
"No niente. Ci è scivolato...."

Passano altri mesi.
La ragazza ha un grosso pancione, aspetta un'altra femmina. E' dispiaciuta, me lo dice. Mi dice, facciamo cambio, tu prendi la mia bambina e io il tuo, dice sorridendo mestamente. Perché anche io aspettavo il mio secondo bambino, maschio.
Una sera le solite urla.
Ma le porte si aprono più spesso. Passi. Corse.
La portano via i genitori.
Finalmente, la portano via.
Lui in un eccesso d'ira aveva preso la forchetta e gliel'aveva conficcata nella mano.

Dopo tre giorni torna.

Poi, pochi mesi dopo cambiano casa.
E io sono felice.
Si leggeva negli occhi di lei l'adorazione, l'innamoramento. Come negli occhi di lui la rabbia e la disperazione.
Sbagliava lei? Sì, certo.
Ma io mi chiedevo quale fosse la sua storia passata. Che tipo di amore l'aveva plasmata?
Di fronte a genitori che ci dicevano, ma no... sono giovani. Perché se si è giovani è lecito picchiarsi?

Li rivedo a volte.
Hanno avuto l'agognato maschio. Ha la stessa età del nostro terzo bimbo.
Vedo dietro di lui la pressione culturale, la dinamica familiare. Chissà, magari lui riuscirà a levarsi di dosso un'idea malata di amore. Magari sarà portatore di serenità, alla fine.

Se però devo giudicare e dire chi sbaglia io di dubbi non ne ho. Sbaglia lui.
La violenza sta sempre dalla parte sbagliata, che essa sia verbale o fisica.
Poi, dopo, ma molto dopo, possiamo forse anche discutere del perché lei subisca.

Ma mi chiedo anche e lo chiedo a voi, quante volte durante il giorno dovremmo reagire ad atteggiamenti maschilisti e quante volte non lo facciamo. Perché la reazione costa fatica, tanta fatica.
E pensate a quella donna accusata di non aver reagito davanti ad un ex-premier della Repubblica Italiana, davanti a giornalisti e televisione, davanti al proprio datore di lavoro.
E noi siamo qui a parlare e a tratti indignarci, pensando che a lei abbia fatto piacere essere soggetto passivo delle battute da bar sport.

Forse anche i giornalisti e gli anonimi opinion maker dovrebbero chiedersi qualcosa.

Buon San Valentino, nonostante tutto.




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