lunedì 26 novembre 2012

SUL CASO

Io, il Due e l'Uno usciamo di casa tutte le mattine intorno alle 8.10 di mattina. A volte ci incolonniamo subito. A volte viaggiamo a passo d'uomo fino alla finale destinazione scolastica.
Durante questo tragitto abbiamo fatto delle amicizie.
Cioè noi sappiamo di essere amici di queste persone che incrociamo sul sentiero quotidiano, mentre loro non lo sanno. O meglio non sappiamo se anche loro ci hanno guardato, se anche loro aspettano che noi passiamo.
La prima nostra grande amica è una bambina che aspetta l'autobus che la porti a scuola. Ha i capelli lunghi tanti mossi e indossa sempre vestiti rosa. Rosa chiaro rosa scuro lilla viola. Abbiamo deciso che ha l'età di Uno, otto anni.
Quando noi svoltiamo lei è lì, rivolta verso di noi in attesa. Se non c'è è perché siamo molto in ritardo. Se si ammala ci preoccupiamo e ci chiediamo come sta? Cosa avrà? Il raffreddore? Il mal di gola?
Lei se è nuvolo ha sempre l'ombrello, al contrario dei miei bambini perché io mi dimentico sempre di dare loro l'ombrello. Una volta, una volta sola in tre anni, l'abbiamo vista parlare con qualcuno dal terrazzo sopra di lei.
Lei c'è. E' la nostra sicurezza.

Tornando da scuola c'è la nostra seconda amica, anzi la mia seconda amica.
E' una ragazza bellissima. Con lunghi tanti lisci capelli sempre raccolti. Ha uno sguardo scuro, penetrante, serio e vagamente doloroso. E' magra. No. E' più magra del magro. E' sottile. Il suo corpo è fatto di semplici linee tracciate a matita.
E cammina. Veloce. Cammina trascinando vestiti larghi. E' perfettamente truccata. Ha sempre il cappello quando è molto freddo. Io invece me lo dimentico sempre il cappello anche quando il freddo mi trapana le tempie.
Lei, la ragazza, la vedo che torna quando torno a scuola a prendere i bambini. Se non la incontro mi preoccupo. Le sarà successo qualcosa? Non starà bene?

Martedì scorso ho di nuovo iniziato il mio corso di yoga. Ma cambio tutto. Cambio giorno, cambio orario.
Sono lì, stesa sul tappetino. Attendo l'insegnante. Improvvisamente il mio occhio destro accoglie un movimento. Lento. Una figura nera. No. Delle linee nere che si muovono: la ragazza che cammina veloce. Lì al mio fianco.

Al momento reagisco male. No, tu devi stare là, a camminare veloce su quella strada. Poi comincio a osservarla. Rubo sguardi. Vedo l'eyeliner steso perfettamente. I piedi lunghi magri. E' alta. Io e lei vicine. Le uniche donne di quel corso a non essere nonne.

Respiro e la sento. E mi dico che è qui vicino a me e sì. Sta bene.

mercoledì 14 novembre 2012

LA BAMBINA CHE TESSEVA CON LE PENNE

Pochi giorni fa l'Uno si è ricordato del suo compagno che all'improvviso e all'insaputa di tutti si era trasferito in un'altra scuola. Ne avevo parlato qui, a proposito del provare dolore e del cercare di proteggere i propri figli.
"Chissà come sta?"
Mi chiede.

Capisco l'Uno.
Anche perché durante le scuole elementari avevo una compagna, Anna, a cui ero molto legata.
Era di origini toscane e sapevo che era in prestito in questa terra brianzola.
Aveva quest'accento meraviglioso e per me così esotico.
Aveva un fratello più grande e quando andavo a giocare a casa sua ci faceva sentire della musica strana e la loro camera era tappezzata di foto di David Bowie.
Vivevano in un appartamento di un bellissimo complesso centrale della nostra città, tanti appartamenti, un enorme giardino, tantissimi bambini il pomeriggio con cui giocare in cortile.
Solo ora mi rendo conto ripensando a lei, che negli anni a seguire la planimetria del suo appartamento è diventata per me la geografia familiare di tutti i romanzi che ho incontrato nella vita. Nel suo appartamento ho ambientato tutti i libri che ho letto e molti dei sogni a occhi aperti che ho fatto.

L'invidiavo perché aveva una cameretta in comune con suo fratello, mentre io ero isolata nella mia vasta e fredda stanza. L'invidiavo perché lei non poteva mai venire a casa mia, perché io il pomeriggio stavo dai nonni. L'invidiavo perché lei aveva una mamma che faceva le torte anche se non era festa. L'invidiavo perché i pomeriggi giocava con almeno una decina di amici e solo da lei si poteva fare un "guardie e ladri" decente.

Ma soprattutto ammiravo la sua calma, la sua compostezza, il suo sorriso dolce. E invidiavo le sue abilità: durante l'intervallo prendeva la mia o la sua penna colorata (quelle che si usavano negli anni ottanta, profumate da far venire il mal di testa) e cominciava con la punta a fare l'uncinetto. Ricordo il vago profumo della penna, i nostri grembiuli bianchi che si sfioravano, il silenzio di ammirazione e le sue magre mani che lavoravano.

Perché la mia era un invidia che si riversava solo su di me e che già a otto anni metteva in dubbio il mio stile di vita, le mie relazioni e sì un po' soffrivo, ma un po' mi sentivo un'eletta ad avere Anna accanto a me.

Lei è un'altra BDGO, che Stima ha così ben definito, ha un volto pallido pallido, corti capelli castani e due occhi blu grandi come il cielo.

Un giorno d'estate Anna mi dice che se ne va. Torna in Toscana. Anzi, non me lo dice lei, me lo dice sua mamma, alta alta, un giorno sulla porta di casa sua. Anna abbassa gli occhi come me, accomunate da un dolore inenarrabile.

Da brave amiche i mesi successivi ci scriviamo. Poi sempre più raramente. Fino al silenzio.

Io la cerco ancora Anna.
Ogni tanto digito il suo nome e cognome su fb. E analizzo invano i volti.
Ma lei non c'è mai. Devo convincermi forse che Anna deve restare lì, tra quei dolci e un po' struggenti ricordi.
E forse anche l'Uno lo deve fare.

lunedì 5 novembre 2012

MIO FIGLIO E' UNO SCULTORE ovvero SULLA SCUOLA BIDIMENSIONALE

Ieri sera io e il K. cenavamo senza gnomi, che già si erano rifocillati. Il Due si avvicina al tavolo con cartoncini, forbici, scotch e le cartine di alluminio dei soldini di cioccolato mangiati in precedenza.
"Cosa devi fare?"
"Una scatoletta per le cartine dei cioccolatini!"
"Come mai?"
"Perché ho sentito che se sbattono fanno una specie di musica."

E così ha cominciato a lavorare, prima ha fatto una bustina ma le cartine non suonavano. Poi ha capito, avrebbe dovuto lasciare più spazio. Ha ricominciato, di nuovo tagliato e di nuovo scotchato.
Questo è il risultato, e vi assicuro che il suono che fanno le cartine muovendolo, è meraviglioso:


"Sei uno scultore" gli ho detto ieri sera.
E lui mi ha guardato e mi ha sorriso, imbarazzato e felice.

Stamattina mentre rimettevo in sesto la sua stanza ripensavo a quel muro coi mollettoni appesi nella sua classe. Servono a tenere tutti i disegni dei 24 alunni. Il suo è vuoto. Vuoto. Nulla. Deserto.
Lui è uno scultore, mi ripetevo. E mentre stipavo ordinatamente le centinaia di pezzetti di lego nelle scatole me lo vedevo. Silenzioso creatore di opere in 3d. Dai lego ai kapla (la notte di halloween ha fatto coi kapla la città dei gormiti, sensazionale), dal cartone al legno, dalla plastica alle cannucce. Lui trasforma la forma.

Porta a casa da scuola oggetti inventati e come Archimede Pitagorico, li stipa nella sua cameretta perché bisogna 'lasciarli in mostra'.


Mio figlio ha 5 anni.
L'anno prossimo il grande salto.
Nella scuola primaria bidimensionale saprà continuare il suo percorso di scultore?
O verrà costretto tra le pagine di un quaderno a righe?
Lui deve toccare le sue creazioni.

La scuola dell'infanzia dove va ha organizzato una gita extra-orario per genitori e bimbi a Como, per vedere questa mostra
Io e lui. Solo io e lui senza fratelli. E lui che ammirava queste opere tridimensionali e gioiva. E fuori pioveva a dirotto. Sapete quei momenti perfetti? Ecco questo lo era. Per me e per lui ne sono sicura.

Curerò la tua passione mio Due. E' una promessa.

(Se passate da Como ve la consiglio davvero)


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